Storia di un clown
Giulia Di Leo ha intervistato per noi Stefano Vagnoni, un clown e illusionista che opera da oltre vent’anni nell’ambito della magia.
Ecco la sua storia.
«Il mio lavoro è fare il clown per raccontare il mondo reale attraverso la magia». Stefano Vagnoni, marchigiano di origine, ha iniziato a fare spettacolo a 18 anni: con alle spalle alcuni lavori in sud America ed Europa, oggi vanta un’esperienza ventennale nel settore della magia.
Qual è la sua specializzazione?
Sono un clown illusionista, da intendersi come una fusione tra un clown teatrale e uno circense. Ho inserito anche l’illusionismo, perché voglio raccontare il mondo attraverso la magia.
Un modo di raccontare che sembra banale ma non lo è, giusto?
No, per niente. Mi rivolgo sia ai bambini che ai genitori, perché per i figli è importante che partecipino anche loro. In più, da genitore cerco di immedesimarmi e capire come parlare a tutti.
Oggi la magia è sempre più diffusa. C’è il rischio che anche i bambini sappiano già i trucchi del mestiere?
Sì, per questo cerco dei modi innovativi per raccontargliela. Loro sono molto svegli e partecipativi: non hanno ancora la dialettica per descrivere il mondo, ma lo comprendono e spesso tirano fuori delle risposte assurde e spiazzanti. L’arta magica sta, quindi, nella presentazione del gioco. C’è dietro tutto un lavoro di creatività del racconto.
Quali sono le tematiche dei suoi spettacoli?
Perlopiù sociali e ambientali. Approfondisco i temi dell’inquinamento, delle corrette abitudini alimentari e comportamentali, fino a quelli più complessi di razzismo e bullismo. Non sono un educatore, ma cerco solo di semplificare argomenti profondi, rendendoli divertenti grazie agli effetti magici.
Quali sono questi effetti? Ne usa uno in particolare?
Con i bambini gioco spesso a fare il grande mago, ovviamente per finta. Obiettivo dello spettacolo interattivo cui partecipa anche il giovane pubblico è quello di rubare il segreto dei maghi per cambiare il mondo. Dietro poi ci sono scopi più importanti: come quello di far mangiare correttamente una tartaruga che si nutre solo di plastica. I bambini, così, imparano che il mare è inquinato e bisogna fare qualcosa per modificare questa situazione.
Quali sono i luoghi in cui si esibisce?
Solitamente nelle scuole, ad altri spettacoli, nei teatri, in associazioni, nei comuni. Sono gli enti istituzionali a chiamarmi, soprattutto quando si ha a che fare con giornate incentrate su temi che io stesso approfondisco nei miei spettacoli. Mi è capitato anche di esibirmi per beneficenza con determinati pubblici. Di solito l’ostacolo maggiore è quello dell’empatia e dell’immedesimazione se si hanno davanti delle persone che hanno vissuto cose che a te non sono capitate. Ma ho anch’io una storia difficile alle spalle: ho perso la mia primogenita per morte bianca.
E cosa cerca di insegnare al suo pubblico?
Che la vita è bella e si può andare avanti. L’amore che non ho potuto dare a mia figlia ora cerco di donarlo a tutti i bambini che vengono a vedermi. A loro voglio dire che ci sono sempre altre opportunità. Non bisogna arrendersi, ma vivere con sorriso, ironia e leggerezza. Lo insegnava anche Benigni che “la vita è bella”: lui è riuscito a parlare dell’olocausto smorzandone la tragedia con una dolce risata. Ecco, io cerco di fare lo stesso, perché l’importante è essere consapevoli di poter scegliere. Siamo tutti piccole gocce che formano un oceano: se lavoriamo al meglio, anche il mondo diventa migliore.
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