Amarcord: vino e memoria dal Canavese

Amarcord: vino e memoria dal Canavese

Fin verso la fine degli anni Sessanta, nella maggior parte del territorio canavesano, le famiglie vinificavano in casa: chi con uve di propria produzione – il più delle volte con un prodotto decisamente di bassa qualità –  e chi con l’onere di spostarsi, con non poche difficoltà, per acquistare la materia prima nei territori astigiani, noti per una produzione di uve di elevata qualità.

Entro la fine del mese di ottobre il vino novello, decisamente asprigno e in fase di ultima fermentazione, si spillava dal tino, si travasava nelle damigiane e si lasciava riposare fino a dicembre. In quell’occasione, ne veniva messa da parte una bottiglia che, successivamente, la sera dei Santi e dopo la recita del santo rosario, doveva essere posta sulla tavola imbandita, accompagnata da una scodella di castagne lesse, affinché i defunti della famiglia potessero tornare durante la notte e cenare, in quella che era stata la loro dimora.

I metodi di vinificazione allora usati erano ben lontani da quelli dei giorni nostri: nel bene o nel male il vino si faceva da solo (gli enologi erano solo “roba per ricchi”, o per alcune cantine sociali) e il “fai da te” dominava interamente la scena.

Se l’uva aveva raggiunto un perfetto grado di maturazione e aveva una buona gradazione zuccherina, il prodotto finale era ottimo; ma, purtroppo, le annate buone erano poche, e il più delle volte il vino non risultava un granché, fatte salve alcune zone, note per la coltivazione della vite e in cui il microclima e la composizione del terreno favoriscono, ancora oggi, un raccolto di elevata qualità.

Nel periodo natalizio, in corrispondenza della luna calante, occorreva travasare il vino, per liberarlo dai depositi (morchia) che avrebbero potuto trasformarlo in aceto, probabilità alquanto elevata sia per la sommaria vinificazione, sia per la bassa gradazione alcolica.

Era un’occasione di festa. Si preparava un buon pranzo: la gallina più anziana veniva premiata per la sua lunga carriera di produttrice di uova, trasformandola in bollito, tritata e nascosta negli agnolotti; una foglia di cavolo arrotolata con dentro un po’ di carne (pess coij); due rape lesse; qualche patata…e l’assaggio del vino nuovo!

A l’è boun”, era merito del vinificatore… “A l’è mac li pareij”, era colpa della stagione… “Tant a venta bejvlu l’istess” era il commento consolatorio, poiché c’era solo quello.

[Ndr le ultime tre espressioni in dialetto significano rispettivamente: ‘è buono’; ‘è solo lì così’ (= “insomma…”); ‘tanto bisogna berlo lo stesso’]

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